“Alessandro figlio mio adorato, scendi ti devo parlare”, Carletta convocò il figlio in cucina con tono un po’ serio e un po’ burlesco.
La cucina era per Carletta una specie di casamatta, un rifugio, il posto dove poter esprimere o immaginare se stessa e non solo ai fornelli da brava casalinga anni cinquanta. Ora, ad esempio, tra una stoviglia ed un pacco di biscotti, stava ripensando al Tennis Camp,
la festa finale alla scuola tennis del figlio, la scorsa primavera. In particolare a quei trenta secondi nei quali Egidio, il padre di Matteo, un compagno di squadra di Alessandro, aveva posata la sua mano sull’avambraccio di lei. In quel momento aveva sentito tutto il peso della solitudine alla quale l’aveva costretta il suo ex marito, il papà di Alessandro, quando aveva deciso di andarsene.La scala di legno che
collegava il primo piano al piano terra strideva e scricchiolava ad ogni passo
del ragazzo, un robusto ed allenato quindicenne di quasi due metri.
Strano, pensò
Carletta, sta scendendo subito, al primo richiamo…
“Dimmi mà, in fretta
che vado ad allenarmi fra poco.”
“Hai deciso lo sport
che vuoi seguire quest’anno?”
“Te l’ho detto già tre
volte, ricomincio daccapo?” rispose a metà tra la sorpresa e la noia.
“Qui vicino abbiamo
un’ottima scuola di tennis, tu sei bravo, sei portato. Perché non continuare
lì?”
Alessandro, in camera
sua, aveva appena perso un campionato elettronico di calcio alla play station. Aveva
anche conseguentemente lanciato il joystick contro il muro e temeva di averlo
distrutto. I suoi punti in classifica generale erano scesi parecchio. Non solo,
c’era di peggio, molto. Da qualche giorno il suo animo vagava in nuvole
basse. Sembrava, almeno così l’aveva
raccontata Lauretta, una sua compagna di classe, che da atteggiamenti e
sguardi, Annina, la ragazza che gli piaceva dalle scuole medie, fosse
interessata a Michele, un tipo di diciassette anni che frequentava la loro
stessa scuola.
“Mà, quest’anno faccio
basket, l’istruttore a scuola dice che sono forte e devo unirmi alla sua squadra.”
“Però il campo è a
mezz’ora da casa, ed è tempo rubato allo studio. Un’ora per andare e tornare. E
due ore e mezza per me ad aspettarti.”
“Mi spiace mà, ma
quest’anno gioco a basket.”
Carletta aveva un’altra
un’idea che la atterriva. Associava il basket alle bande giovanili, alle gang
di strada, come aveva visto in American Graffiti e in tanti altri film
americani. Spaccio, coltelli, scazzottate e polizia, tanta polizia. I campi di
basket avevano, nella sua testa, un contorno di spazzatura e vetri rotti di
finestre e case abbandonate. Non solo Alessandro avrebbe rischiato ogni volta
un occhio nero ma anche lei sarebbe stata in continuo pericolo, lì in attesa
della fine degli allenamenti, tra pusher e rapper con gigantesche catene d’oro
al collo. Ma tutto ciò non voleva dirlo al figlio.
Alessandro invece già
da due settimane, all’insaputa di Carletta, andava nella nuova palestra tutta
luce, legno ed alluminio inaugurata pochi mesi prima. In quella periferia di
cui avevano parlato i giornali perché progettata da tre importanti architetti
con tutti i crismi della riqualificazione urbana. Materiali ecocompatibili,
spazi vivibili e tanto verde. L’associazione sportiva aveva saputo spendere
bene fondi europei destinati allo sport. Ed il team di basket era primo nel suo
campionato. Un sogno per Alessandro.
“E poi vuoi mettere il
tennis – continuava Carletta – uno sport signorile, campi in erba o terra
rossa, club esclusivi, tornei in giro per il mondo…”
“In giro per il mondo?
Lo scorso anno ho fatto il torneo della scuola e non è andato nemmeno bene.”
“Certo, devi crescere
ancora, allenarti.” Gli ripeteva meccanicamente mentre la testa era alla mano
di Egidio.
“Il campo da tennis
dove mi sono allenato lo scorso anno è in cemento e si sta sbriciolando.”
“Ma non ti ricordi?
Abbiamo visto insieme Wimbledon, il Roland Garros…” Si aggrappava disperata ad
ogni pensiero sentendosi scivolare lontano quella mano e anche il corpo di Egidio. Come se girasse su pattini al centro di una pista dove il
ghiaccio si stava spaccando sollevandosi.
Anche l’attenzione superficiale
di Alessandro velocemente volava via verso Annina, a quel giorno in cui col
gruppo della Chiesa erano andati a camminare in montagna. Lui era riuscito a
sederle accanto per qualche minuto cercando senza sosta di controllare la
propria emotività che gli procurava una forma leggera di balbuzie. Era riuscito
a farla sorridere, un trionfo. Anzi, lei si era addirittura voltata verso di
lui e lo aveva guardato dritto negli occhi. Lì gli aveva sorriso dicendogli che
secondo lei doveva giocare a basket, vista l’altezza.
“Mà, io vado!”
Alessandro era già sulla porta.
“Secondo me non sei
adatto al basket!” Urlò in evidente confusione educativa.
La porta si aprì e si
richiuse più silenziosamente del solito.
Alessandro non si
aspettava la sfiducia della mamma. Di solito lei lo sosteneva, come lui
sosteneva lei dalla partenza del padre. Fino a poco prima era convinto che lei
sarebbe stata la prima ad entusiasmarsi per la bellezza del nuovo centro
sportivo.
Una lacrima lo accompagnò
al campo scendendo lenta giù dalla guancia. Là una palla arancione scuro
rotolando veloce verso di lui, gli asciugò veloce ogni pensiero.
Anche in cucina una
lacrima stava scendendo rigando il viso ancora giovane di Carletta. Cadde bagnando l’illusorio avambraccio. Ne seguirono altre. Che centrarono la tazza della colazione
col viso del figlio stampato sopra. L’idea di averlo ferito ingiustamente, per
egoismo, si era aggrappata alla gola. Ci mise un po’ a riprendere fiato e
regolarizzare il battito cardiaco. Si aiutò con due tisane rilassanti e con
l’impasto della pizza che avrebbe strappato, aiutato da un abbraccio, il sorriso
ad Alessandro al suo ritorno.
Scritto da Gianni il 30 Ottobre 2023
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