La poltrona Frau di pelle marrone scuro è di fronte a me, due tre metri. Era di mio padre.
Ricordo quando ce la regalò. Era contento che qualcosa di
veramente suo, che faceva tanto parte della nostra vita, padre e figlia,
potesse passare a me e al mio compagno. Continuare a vivere nella mia nuova
esistenza. Gli occhi gli brillavano, gli succede spesso da qualche tempo. Forse
un cuore anziano ha maggiore spessore, percepisce di più o cambia colore come i
capelli.
L’abbiamo messa in sala davanti alla tv. Ha lo schienale così
alto da nascondere lo schermo quando le sei dietro.
Ne guardo il retro e penso a lui. Da piccola era una festa
ogni volta che lo incontravo lì. Scalavo le sue ginocchia e conquistavo le
gambe dove capriolavo e infine mi accucciavo. Se fosse crollato il palazzo in
quel momento non me ne sarei accorta: ero nel posto più sicuro della terra.
Ricordo le sue risate piene di tenerezza.
Mi tremano le gambe.
Tra le mani ho una tazza di caffè caldo mentre la televisione urla frasi sguaiate di tifosi di calcio. Davanti è seduto comodo il mio compagno, quello che vive nella mia casa, sulla mia poltrona. Non mi muovo, fisso la spalliera. Il braccio mi ricorda il suo dolore con una fitta improvvisa. Ha memoria delle sue dita grosse strette intorno. Fuori dalla finestra si accendono le luci delle strade, le vedo lontane, più calde del mio cuore. Il cielo è già scuro di nuvole grigie e basse. La nebbia sta giocando tra le vie scendendo veloce da lassù.La sua voce chiama forte un nome, il mio. Anche la tazzina
trema, con la stessa mano la tengo attaccata al piattino per non far rumore.
Sono bloccata a due metri da lui, protetta dalla poltrona. Non mi vede e non
schioderà da lì fino alla fine della partita.
Sento il suo odore, mi piaceva tempo fa. Ho molti ricordi con
lui: le sue smorfia di rabbia, le braccia che girano in aria fino a colpirmi.
Arretro ed esco dalla stanza in punta di piedi. Torno in cucina e apro lo
sportello della mensola di legno. Prendo il sonnifero e lo sciolgo nel caffè.
Davvero. Voglio vederlo il meno possibile. Lo tollero solo
addormentato, quando posso alzarmi dal letto e andare a dormire sulla mia
poltrona tra i cuscini morbidi e la coperta che usava papà.
Una, due pasticche. Sarà il tremore o la testa, ma decido di
metterne un’altra e poi una in più. E per non sbagliare ne prendo altre due.
Esco dalla stanza, di nuovo dietro alla poltrona; gli allungo
la tazzina da dietro. Non voglio nemmeno il suo sguardo su di me.
“Era ora, quanto ci metti a fare un caffè?”
“Scusa stavo lavando i piatti”
“E tu interrompi di lavarli, mi prepari il caffè, me lo porti
e poi continui i tuoi stupidi lavori. Chiaro?” la voce si era alzata parecchio
fino al “chiaro” finale, urlato. Almeno non ti vedo. Ma ti sento.
Per fortuna inizia la partita. Guardo fisso lo schienale, in
piedi, in silenzio. Cos’altro potrei dire? Mi hai rubato anche i pensieri,
sbagliati, dici.
Aspetto. Cinque minuti, dieci, undici, dodici. Il respiro
dalla poltrona si fa pesante mentre un gol scuote lo stadio ma non te caduto
nel sonno. Finalmente il campanello di casa suona. L’ambulanza non ha perso
tempo. Tre infermieri, una donna e due uomini, sono entrati con i giubbotti
colorati e riflettenti. Le finestre si illuminano di blu intermittente.
Alle loro domande non rispondo.
Vado dietro alla poltrona e lì comincio a togliermi i
vestiti. Sono come sono, mi vergogno un po’. Le braccia, le gambe, la pancia,
il collo, la schiena hanno cambiato colore. Sono una chiazza livida di diverse
tonalità, nemmeno i piedi si sono salvati. Mi accovaccio a terra mentre la
donna chiama i carabinieri.
Lui ancora addormentato viene portato via. Io salgo
sull’ambulanza che urlerà a tutto il quartiere la mia libertà.
Traccia: "Di nuovo sulla violenza sulle donne (per il reding in biblioteca)

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