Milano, Stazione della Metro di Piazza del Duomo, ore 13,20.
Salgo le scale insieme
a centinaia di piedi che trotterellano verso il cielo. Lui, fuori, lassù, cade
a terra colpito da una mazza da baseball.
Ho scelto la fila dei mediocremente allenati di mezza età, sempre pronto a cambiarla per tirare il fiato. L’assalitore ha vita facile nel confondersi nella folla e scappare.
L’effetto formica, per
cui ti sposti i centimetri necessari quando incroci un tuo simile in senso
opposto alla tua marcia e lo eviti, è alla massima allerta. Maledico aver
cambiata oggi l’abitudine di risalire alla luce solo dopo il branco disordinato
e famelico espulso dai vagoni della metropolitana.
A fianco ho un tipo
vestito bene che beato lui non sembra infastidito, anzi… ha un’espressione
serena e luminosa.
Finalmente fuori.
A pochi metri dalla
rampa di uscita si gonfia un capannello di sconosciuti intorno all’uomo con la
nuca sfondata, riverso nel suo sangue. Immobile. Il viso rivolto a terra.
Vedo mio padre anche
lui in uscita dalla metro e mi avvicino. Qualcuno grida, altri improvvisano una
caccia all’uomo subito bloccata dalla polizia. Ci sono postazioni fisse vicino
al Duomo.
L’uomo proprio non si
muove, un’ambulanza è già vicina, spiegano le sirene. Tutti diamo un’occhiata al
dramma, chissà poi perché. Qualcuno racconta dell’uomo con la mazza da
baseball. Qualcun’altro conosce la vittima, ci stava parlando. Ne dice il nome:
Angelo.
Fino a quel momento
ero preso nei miei pensieri: quella giovane donna appena incontrata proveniente
dallo Yemen, senza alloggio e con tre figli. E poi il giovane Abdhù, nome
certamente storpiato dalla burocrazia, rimasto orfano e troppo giovane per
lavorare. Forse il mio amico Mario poteva fare qualcosa per loro… Ma ora la
scena da telegiornale mescola ogni priorità.
Scorgo una donna
inginocchiata vicino a lui. Piange compostamente accarezzandogli la mano. Mi
tengo a distanza per rispetto di quello sconosciuto, della sua storia. I
giornali avrebbero scritto ad indagini terminate che quell’uomo, il signor Angelo
Arca, stava tornando a casa con la moglie. Mediatore culturale. L’assassino
aveva colpito a caso, prima lui e poi altre tre persone in quel giorno. Stessa
mazza da baseball, stessa insensatezza, stessi epiloghi.
Intercetto lo sguardo
di mio padre, è vicino alla persona elegante e tranquilla che avevo vista
prima. Si conoscono, si scambiano sguardi, sorrisi. Mio padre in particolare ha
una espressione differentemente nuova: radiosa di una felicità che lì ed ora mi
sembrano del tutto fuori luogo. Nel trambusto generale attraggono la mia
attenzione. Più mi avvicino a loro e più mi allontano dalla folla. I gesti
sanguinosi del mondo che tanto pesano su di me, che hanno dettato tante mie
scelte, mi liberano via via dai loro lacci. Assurdo. Di fronte ad un dramma mi
sento irresponsabilmente leggero.
Con mio padre e lo sconosciuto insieme ci
allontaniamo. Non c’è un perché. Ma tutto sembra avere un senso leggero. Come
da piccolo in braccio a lui.
Non mi sono ancora presentato. Mi chiamo Angelo.
Angelo Arca.
Scritto da Gianni nell'Ottobre 2023
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