04/03/24

STIAMO USCENDO IN DUE, PER L'ULTIMA VOLTA

La porta si chiude dietro di noi con lo stesso rumore, lo stesso peso, la stessa traiettoria di sempre. Ci separa dal solito corridoio col solito parquet e i soliti muri di casa. Stiamo uscendo in due, per l’ultima volta. Le borse già pronte, non c’è bisogno di parole. Il mio dito preme la chiamata dell’ascensore. Sette piani da scendere questa notte sono troppi.

Ti muovi eroica trovando a ogni passo l’equilibrio, non vedi dove metti i piedi. Le prossime ore si apriranno al mistero. Sorrido per darti forza, ma non la ho. Non ho ancora il conforto di Dio, è tutto troppo per me, chissà per te. Mi fa paura la scoperta della mia debolezza. Le domande mi opprimono, devo rimanere fisso sul presente: una cosa alla volta, anch’io devo pensare solamente al passo successivo. Uno dopo l’altro al buio senza vedere, niente più.

 

Roma di notte è illuminata. Le strade sono libere. Forse piove. I movimenti automatici della guida lasciano spazio al pensiero dominante: “Cosa sarà domani?” Lo sviluppo in molteplici declinazioni. “Sarò capace? All’altezza?” Alla fine sempre là vado a sbattere. Mi sembra tutto più grande di me.

Solo un’idea mi aiuta: “Non sei né il primo né l’ultimo”. Il fatto stesso di essere, lo testimonia. Ok, ma l’agitazione non scende. Non c’è bisogno del clacson e del fazzoletto bianco al finestrino, peccato sarebbe stato divertente. Sai cos’è divertente? Che in questi mesi, da quando mi hai detto del test di gravidanza, ti accompagno ai corsi preparto, alle ecografie e mi dicono che sono un bravo marito, che la mia calma può aiutare, ma la verità è che tu devi tranquillizzare me. Che teatro! Che bravo a recitare: dentro il mio cuore suona un ritmo sincopato, un’aritmia che sinuosamente mi accompagna.

 

Una donna vestita di bianco ci dice che non è il tempo. Né musica né pioggia. Solo non c’è imminenza. Aspettiamo l’alba. Quanti momenti significativi sono segnati dalle albe. Accolte dal vetro della macchina o da quello di una finestra qualsiasi fuori casa. Vedere l’alba, se non è usuale, alimenta il fascino e il dramma del momento. Mi attrae e spaventa al contempo. Meglio un campanile o un orologio prestato a ricordarmi quando sono.  

 

“Spesso i neo papà che assistono al parto sono nervosi, parlano, danno indicazioni, alzano la voce. Altri svengono.” Ricominciamo coi complimenti. “Lei invece è stato perfetto!” mi dicono in sala parto. E certo! Non ho spiccicata parola per tutto il tempo.

Come sia possibile tutto ciò, soprattutto perché, non lo so. Ci ho pensato su in questi mesi, ma niente. Diamo per scontato un atto, la nascita, che è pura magia, roba ultraterrena. Una follia adamantina.

Lì dentro la sala, dove finalmente i pensieri svaniscono sconfitti dalla realtà, tutto fila, tutto torna nei suoi confini. I minuti acquistano valore, la puntura epidurale dovrebbe servire, le parole dell’ostetrica scalano le vette del dolore, i curiosi girano intorno, io taccio. La neomamma si guadagna sul campo le medaglie, la coppa della vittoria: tu.

Piccolina, cominci a uscire tra le gambe della mamma. Vedo i capelli scuri, poi il tuo viso. Hai gli occhi aperti! Possibile che tu possa già vederci? E’ un attimo, dopo ore di attesa, e sei fuori, ancora legata come un astronauta a tua madre. Ma ci sei. La mia vista è appannata, nuoto sott’acqua a occhi aperti e ti conto. Le dita, gli occhi, le orecchie. Straordinariamente c’è tutto. Sei tranquilla, sembri sorridere. Qualcuno ti prende, ti stacca e ti lava. Ti fa piangere, per la prima volta. Dovrei picchiarlo ma non lo faccio.

Mi fanno uscire. Trovo i parenti che mi fanno domande. Riesco a dire qualche sì, qualche altro no, non capisco. Non sanno che abbiamo appena partorito? Che siamo appena venuti al mondo?

Scappo. Devo prendere la macchina fotografica lasciata in auto. In androne vedo visi. Li riconosco, sono dei miei genitori. Ora l’ospedale è chiuso, sono fuori e non ho dato loro notizie. Il tempo e le ore mi cadono pesantemente sopra, devo velocemente rientrarvi.

“Venite qui” li piazzo in un punto strategico “guardate quella finestra al primo piano. E’ la nostra stanza.”

Salgo. Mi spieghi come prendere in braccio nostra figlia senza rovinarla, mi incoraggi, me la metti a posto. La prendo e la alzo al cielo davanti la finestra come in offerta divina per mostrarla ai nonni là sotto.

Siamo entrati nella storia. Abbiamo dato vita. Ci sentiamo stanchi, siamo esseri moderni in uno dei pochi atti naturali e di verità rimasti.

Grazie a Dio domani torneremo a casa. In tre.

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