La porta si chiude
dietro di noi con lo stesso rumore, lo stesso peso, la stessa traiettoria di
sempre. Ci separa dal solito corridoio col solito parquet e i soliti muri di
casa. Stiamo uscendo in due, per l’ultima volta. Le borse già pronte, non c’è
bisogno di parole. Il mio dito preme la chiamata dell’ascensore. Sette piani da
scendere questa notte sono troppi.
Ti muovi eroica trovando a ogni passo l’equilibrio, non vedi dove metti i piedi. Le prossime ore si apriranno al mistero. Sorrido per darti forza, ma non la ho. Non ho ancora il conforto di Dio, è tutto troppo per me, chissà per te. Mi fa paura la scoperta della mia debolezza. Le domande mi opprimono, devo rimanere fisso sul presente: una cosa alla volta, anch’io devo pensare solamente al passo successivo. Uno dopo l’altro al buio senza vedere, niente più.
Roma di notte è
illuminata. Le strade sono libere. Forse piove. I movimenti automatici della
guida lasciano spazio al pensiero dominante: “Cosa sarà domani?” Lo sviluppo in
molteplici declinazioni. “Sarò capace? All’altezza?” Alla fine sempre là vado a
sbattere. Mi sembra tutto più grande di me.
Solo un’idea mi aiuta:
“Non sei né il primo né l’ultimo”. Il fatto stesso di essere, lo testimonia.
Ok, ma l’agitazione non scende. Non c’è bisogno del clacson e del fazzoletto
bianco al finestrino, peccato sarebbe stato divertente. Sai cos’è divertente?
Che in questi mesi, da quando mi hai detto del test di gravidanza, ti accompagno
ai corsi preparto, alle ecografie e mi dicono che sono un bravo marito, che la
mia calma può aiutare, ma la verità è che tu devi tranquillizzare me. Che
teatro! Che bravo a recitare: dentro il mio cuore suona un ritmo sincopato,
un’aritmia che sinuosamente mi accompagna.
Una donna vestita di
bianco ci dice che non è il tempo. Né musica né pioggia. Solo non c’è
imminenza. Aspettiamo l’alba. Quanti momenti significativi sono segnati dalle
albe. Accolte dal vetro della macchina o da quello di una finestra qualsiasi
fuori casa. Vedere l’alba, se non è usuale, alimenta il fascino e il dramma del
momento. Mi attrae e spaventa al contempo. Meglio un campanile o un orologio
prestato a ricordarmi quando sono.
“Spesso i neo papà che
assistono al parto sono nervosi, parlano, danno indicazioni, alzano la voce. Altri
svengono.” Ricominciamo coi complimenti. “Lei invece è stato perfetto!” mi
dicono in sala parto. E certo! Non ho spiccicata parola per tutto il tempo.
Come sia possibile
tutto ciò, soprattutto perché, non lo so. Ci ho pensato su in questi mesi, ma
niente. Diamo per scontato un atto, la nascita, che è pura magia, roba
ultraterrena. Una follia adamantina.
Lì dentro la sala,
dove finalmente i pensieri svaniscono sconfitti dalla realtà, tutto fila, tutto
torna nei suoi confini. I minuti acquistano valore, la puntura epidurale
dovrebbe servire, le parole dell’ostetrica scalano le vette del dolore, i
curiosi girano intorno, io taccio. La neomamma si guadagna sul campo le
medaglie, la coppa della vittoria: tu.
Piccolina, cominci a
uscire tra le gambe della mamma. Vedo i capelli scuri, poi il tuo viso. Hai gli
occhi aperti! Possibile che tu possa già vederci? E’ un attimo, dopo ore di
attesa, e sei fuori, ancora legata come un astronauta a tua madre. Ma ci sei.
La mia vista è appannata, nuoto sott’acqua a occhi aperti e ti conto. Le dita,
gli occhi, le orecchie. Straordinariamente c’è tutto. Sei tranquilla, sembri
sorridere. Qualcuno ti prende, ti stacca e ti lava. Ti fa piangere, per la
prima volta. Dovrei picchiarlo ma non lo faccio.
Mi fanno uscire. Trovo
i parenti che mi fanno domande. Riesco a dire qualche sì, qualche altro no, non
capisco. Non sanno che abbiamo appena partorito? Che siamo appena venuti al
mondo?
Scappo. Devo prendere
la macchina fotografica lasciata in auto. In androne vedo visi. Li riconosco,
sono dei miei genitori. Ora l’ospedale è chiuso, sono fuori e non ho dato loro
notizie. Il tempo e le ore mi cadono pesantemente sopra, devo velocemente
rientrarvi.
“Venite qui” li piazzo
in un punto strategico “guardate quella finestra al primo piano. E’ la nostra
stanza.”
Salgo. Mi spieghi come
prendere in braccio nostra figlia senza rovinarla, mi incoraggi, me la metti a
posto. La prendo e la alzo al cielo davanti la finestra come in offerta divina
per mostrarla ai nonni là sotto.
Siamo entrati nella
storia. Abbiamo dato vita. Ci sentiamo stanchi, siamo esseri moderni in uno dei
pochi atti naturali e di verità rimasti.
Grazie a Dio domani
torneremo a casa. In tre.
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