Ti vedo di
fronte a me stagliarti altissimo, forse infinito, “Cosa sei?” Ai miei occhi un
luminoso muro di cassetti.
“Quanti sono?”
ti chiedo. Nessuna risposta. E come ne potevo sperare una? Ho mai sentito
parlare un armadio?
Ma non sei un
armadio, troppo alto e lungo. Più mi avvicino e meno timore provo. Pensavo al
contrario di sentirmi schiacciare, piccola cosa al tuo confronto. Il primo
impulso è allontanarmi. Un muro grande toglie luce e aria. Ma, l’ho già detto,
hai luce. “Non vedo finestre o lampade, nessuna potrebbe essere così grande da
illuminarti tutto. Come fai a essere luce?”
Ti sto
riempiendo di domande. E’ un soliloquio ovattato da stanza piccola e imbottita.
Tutto il contrario della realtà. Dove invece non ci sono dimensioni.
Sento finalmente un leggero rumore. “Che sono questi sospiri?”.
Guardo meglio. Alcuni cassetti lentamente si aprono di poco e di poco si richiudono, altri si muovono più marcatamente verso l’uscita, si fermano e ritornano indietro. “Ah! E’ l’aria che esce da voi cassetti, sembrano sussurri.”Penso che tutta
l’aria uscita dovrà essere sostituita ma per fortuna non è compito mio.
Vedo un
cassetto lontano in alto, sembri il più grande. Sei tra quelli aperti. Ti
guardo dal basso e, pur rimanendo al mio posto, ti sono accanto, sopra, ti
guardo dentro.
C’è una pancia
di donna che cresce veloce, la mia. Vedo dentro il seme fagiolino crescere e
diventare la bimba uscita da me. Sei stata me per nove mesi, che bizzarria
questa cesura. In quei giorni è normalità.
“Come
posso credere normale un fatto di sangue così cruento?” urlo. Ma l’urlo non
esce. Mi rimbalza nel petto e si deposita da qualche parte. Una mamma non può
rinnegare se stessa. Il seme deve spezzarsi per non marcire. Noi donne
conosciamo il distacco, doloroso, traumatico, inevitabile. E’ la nostra natura.
La vita ci avvisa da subito. Gli uomini no. Loro non partoriscono. Loro credono
ancora di poter risolvere tutto con la forza o l’ingegno. Illusi e sciocchi. La
pagheranno cara.
C’è un cassetto
meno spazioso lì vicino. Guardo Giovanni sulla poltrona. La coperta sulle
gambe, sguardo fisso davanti a se, lontano. Dopo la pensione si è arenato. Come
una barca tirata a riva, aspetta. “Alzati, dai! Vivi il tuo tempo!” anche
stavolta la mia voce è solo pensiero.
“Tu non accetti
di subire tagli. Le partenze. Tu non hai fatto esperienza. Ti credevi un eroe
immortale padrone di te stesso. Folle. Ti dico che non possediamo, ci è dato in
prestito.” Non si contano le volte che te lo ripeto, posato sulla poltrona.
E’ raro che i
cassetti comunichino tra loro. Sono costruiti per separare, tenere in ordine.
La loro utilità si manifesta però nel momento in cui troviamo e prendiamo ciò
che è utile. Tenere le cose pulite e separate a cosa servirebbe se non le
usiamo?
Metto in
contatto Giovanni, mio marito, con il dolore del parto. Per prepararlo. Perché
non soffra quando verrà lasciato. Dal suo lavoro, dai suoi figli, dalle sue
forze, dalla sua vita.
Apro un occhio,
poi il secondo. Giovanni mi è accanto. Tra noi nostra figlia. Ha tre anni, è
domenica. Si deve essere svegliata. Ci ha raggiunti sul letto. Mi guarda
sorridente. Ha la stessa espressione del padre che ancora dorme beato.
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