08/03/24

LA CENA DI CLASSE

 

 

Il diploma l’hai preso trent’anni fa. Con te erano una ventina abbondante di giovani coetanei. I vostri sorrisi aperti al futuro nella gioia dell’ultimo giorno di scuola. Pacche sulle spalle, abbracci, nomi urlati ai quattro venti. La voglia di cominciare la vita adulta che riempiva l’aria estiva. Università o lavoro era il pensiero dominante. Chi per la prima, chi per il secondo, si accendevano infinite discussioni tirate su come castelli di sabbia e ugualmente abbandonate in fretta.

“Aminante che farai passata l’estate?” ti chiedevano.

“Ancora non so, vorrei scrivere per un giornale!” rispondevi.

“Il nome da scrittore lo hai già. Il cognome invece troppo banale” alludevano a

Rossi, il più comune tra i cognomi italiani. Forse i tuoi genitori lo avevano voluto compensare col nome: Aminante. A te suonava normale, in realtà dovevi ripeterlo più volte per farlo capire.

I tuoi compagni di scuola, cinque anni passati insieme tutte le mattine dal lunedì al sabato. Gli anni della formazione, entrati ragazzini e usciti quasi adulti.

L’emozione la senti sulla pelle, è palpabile. Sei arrivato un quarto d’ora prima all’appuntamento, aspetti seduto in macchina nel parcheggio del ristorante di un quartiere sconosciuto. Così da vederli prima tu, essere preparato.

“Quella donna mi sembra Mariella”, ti dici a bassa voce. Qualcosa te la ricorda nel viso, il corpo è diverso. Un uomo ti ha telefonato qualche giorno fa, il numero recuperato dai social, per invitarti alla prima riunione della classe dai tempi del diploma, ci hai messo diversi minuti per capire chi fosse.

“Che ne sarà stato di Stefano, di Giorgio, di Teresa. Che vite avranno avuto?” Domande necessarie questa sera. E’ la prima volta che te le poni. Non c’è una persona di quel tempo che tu abbia mai più sentita.

Una sala con un grande tavolo. Stai camminando sul tuo passato, entri in classe, ricordi quanto non ti piacesse l’idea di doverlo fare ogni giorno, uguale a se stesso. Qualche viso si avvicina alla persona che ricordi, qualche altro meno. Nuove mani stringono la tua, nuove voci ti parlano, nuovi sguardi, nuove rughe, nuove persone.

“Che divertimento quando abbiamo trasmesso insieme in radio!”, ti dice la donna che tre decadi prima avresti voluto conoscere di più e meglio, dannata timidezza. Anche lei ricorda, nonostante i mariti e le mogli, i figli e le figlie. Ma non ne parlate nemmeno stasera, e di cosa poi? Già, di cosa poi?

Cibi, vini, dolci, minuti gonfiati in ore. L’ultima foto, fuori dal locale con le voci più alte di chi ha dimostrato la sua forza bevendo vino e liquori come acqua.

“Ciao, ciao! A presto, non facciamo passare altri trent’anni!” le frasi di rito stampate in fotocopia.

Una nebbia pesante ti avvolge appena rientri sul raccordo anulare. Mai vista così avvolgente, salti la tua uscita “Dovrò arrivare alla prossima inversione di marcia, che noia! Non solo il tempo, anche lo spazio stasera gioca con me”, pensi.

Quarata minuti per tornare nella tua epoca, nella tua vita. Tanti, troppi. Sfilano nella tua mente gli sguardi incontrati stasera. I discorsi, i come è andata, le soddisfazioni slittate sui figli, i coniugi e gli ex, il lavoro, i piaceri. “Non eravamo speciali come pensavamo. Non eravamo diversi dai nostri genitori. Né meglio né peggio. Abbiamo vissuto. I più tenaci ci stanno ancora provando.” Ti rimane la sensazione di incompiuto, di aver parlato senza dire, sentito senza ascoltare.

Fuori è un foglio bianco su un tavolo bianco “Che ore sono?” sterzi bruscamente, un pelo tra la macchina e il guardrail. Non distingui forme e confini, non è facile vedere la strada, nemmeno rivedere i vecchi compagni di scuola.

C’è tanta nebbia stasera, dentro e fuori.

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