Il diploma l’hai preso
trent’anni fa. Con te erano una ventina abbondante di giovani coetanei. I
vostri sorrisi aperti al futuro nella gioia dell’ultimo giorno di scuola.
Pacche sulle spalle, abbracci, nomi urlati ai quattro venti. La voglia di
cominciare la vita adulta che riempiva l’aria estiva. Università o lavoro era
il pensiero dominante. Chi per la prima, chi per il secondo, si accendevano
infinite discussioni tirate su come castelli di sabbia e ugualmente abbandonate
in fretta.
“Aminante che farai
passata l’estate?” ti chiedevano.
“Ancora non so, vorrei
scrivere per un giornale!” rispondevi.
“Il nome da scrittore lo hai già. Il cognome invece troppo banale” alludevano a
Rossi, il più comune tra i cognomi italiani. Forse i tuoi genitori lo avevano voluto compensare col nome: Aminante. A te suonava normale, in realtà dovevi ripeterlo più volte per farlo capire.I tuoi compagni di
scuola, cinque anni passati insieme tutte le mattine dal lunedì al sabato. Gli
anni della formazione, entrati ragazzini e usciti quasi adulti.
L’emozione la senti
sulla pelle, è palpabile. Sei arrivato un quarto d’ora prima all’appuntamento,
aspetti seduto in macchina nel parcheggio del ristorante di un quartiere
sconosciuto. Così da vederli prima tu, essere preparato.
“Quella donna mi
sembra Mariella”, ti dici a bassa voce. Qualcosa te la ricorda nel viso, il
corpo è diverso. Un uomo ti ha telefonato qualche giorno fa, il numero
recuperato dai social, per invitarti alla prima riunione della classe dai tempi
del diploma, ci hai messo diversi minuti per capire chi fosse.
“Che ne sarà stato di
Stefano, di Giorgio, di Teresa. Che vite avranno avuto?” Domande necessarie
questa sera. E’ la prima volta che te le poni. Non c’è una persona di quel
tempo che tu abbia mai più sentita.
Una sala con un grande
tavolo. Stai camminando sul tuo passato, entri in classe, ricordi quanto non ti
piacesse l’idea di doverlo fare ogni giorno, uguale a se stesso. Qualche viso
si avvicina alla persona che ricordi, qualche altro meno. Nuove mani stringono
la tua, nuove voci ti parlano, nuovi sguardi, nuove rughe, nuove persone.
“Che divertimento
quando abbiamo trasmesso insieme in radio!”, ti dice la donna che tre decadi
prima avresti voluto conoscere di più e meglio, dannata timidezza. Anche lei
ricorda, nonostante i mariti e le mogli, i figli e le figlie. Ma non ne parlate
nemmeno stasera, e di cosa poi? Già, di cosa poi?
Cibi, vini, dolci,
minuti gonfiati in ore. L’ultima foto, fuori dal locale con le voci più alte di
chi ha dimostrato la sua forza bevendo vino e liquori come acqua.
“Ciao, ciao! A presto,
non facciamo passare altri trent’anni!” le frasi di rito stampate in fotocopia.
Una nebbia pesante ti
avvolge appena rientri sul raccordo anulare. Mai vista così avvolgente, salti
la tua uscita “Dovrò arrivare alla prossima inversione di marcia, che noia! Non
solo il tempo, anche lo spazio stasera gioca con me”, pensi.
Quarata minuti per
tornare nella tua epoca, nella tua vita. Tanti, troppi. Sfilano nella tua mente
gli sguardi incontrati stasera. I discorsi, i come è andata, le soddisfazioni
slittate sui figli, i coniugi e gli ex, il lavoro, i piaceri. “Non eravamo
speciali come pensavamo. Non eravamo diversi dai nostri genitori. Né meglio né
peggio. Abbiamo vissuto. I più tenaci ci stanno ancora provando.” Ti rimane la
sensazione di incompiuto, di aver parlato senza dire, sentito senza ascoltare.
Fuori è un foglio
bianco su un tavolo bianco “Che ore sono?” sterzi bruscamente, un pelo tra la
macchina e il guardrail. Non distingui forme e confini, non è facile vedere la
strada, nemmeno rivedere i vecchi compagni di scuola.
C’è tanta nebbia stasera, dentro e fuori.
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